Moncler vest, Stone Island knitwear, Emporio Armani jeans, El Charro belt, New Era hat.
Era solo questione di tempo, gli anni ’80 sono prepotentemente tornati.
Basti pensare che sono partiti da lì la musica commerciale e le tv private, la maggior parte delle radio e il personal computer, il McDonald’s e i centri commerciali, il calcio moderno e la Nike, gli aerei low-cost e internet, che, dopo una gestazione durata tutto il decennio, arriva nel 1991 e cambia totalmente la nostra vita. E che dire poi del cubo di Rubik, di Superclassifica Show e Discoring, degli ordini su Postalmarket e il ghiacciolo che costava 150 lire?
Una semplice operazione di nostalgia? Niente affatto: è un modo per ricordare, riflettere e capire meglio da dove veniamo e cosa stiamo vivendo, concedendosi anche qualche sana risata. Gli anni ’80, un decennio già scandagliato dal cinema e ora dalle serie tv, da Stranger Things a Glow, a Black Mirror.
E nella moda? L’espressione più eclatante è sicuramente la logo-mania.
Se si pensa ai Millennials, che hanno inventato il normcore – l’invisibilità stilistica elevata a estetica – la logo-mania in teoria non avrebbe dovuto piacere per nulla, ma con la Generazione Z, vale a dire i ragazzi tra i 16 e i 24 anni, le cose sono molto cambiate, e si vede.
Con loro la logo-mania è tornata più prepotente che mai, tanto da diventare uno dei codici visivi più forti e riconoscibili delle ultime stagioni. Concentrata com’è sull’esprimere se stessa e la propria unicità e a distinguersi dalla massa, la fascia d’età in questione ha infatti trovato nel logo e nel suo uso “spropositato” un’ottima valvola espressiva di sfogo. La conseguenza è che rapidamente diversi brand si sono catapultati sulla tendenza, spingendo in avanti la cultura della firma a vista e puntando sul nome messo bene in evidenza.
Analizzare questo trend non può che rimandarci al fenomeno dei paninari. Alcuni li ricordano, perché ne facevano parte, altri perché ne subivano il fascino. Ma sappiamo davvero chi erano? La parodia fatta da Enzo Braschi al Drive In è per molti un tormentone eppure non è stata altro che lo specchio di un preciso momento storico culturale.
I paninari, definiti dai sociologi l’unica vera “subcultura” made in Italy, nascono dopo gli anni di piombo e non a caso rifiutano di identificarsi con un’ideologia politica definita. Preferiscono sognare l’America del mitico hamburger dei fast food, simbolo pop di modernità che sbarca a Milano nel 1981 con la catena Burghy, e vivono l’epoca dell’edonismo spendaccione privo di sensi di colpa, inaugurando il consumismo sfrenato che caratterizza il decennio.
Lo stile paninaro, che inizialmente riguarda solo i figli della borghesia meneghina, diventa poi un fenomeno di costume in tutte le classi sociali. Sono i paninari i primi ad associare la cura del corpo e il viaggio al “lifestyle”: le mete preferite (almeno idealmente) sono oltreoceano, da San Francisco ad Aspen. Ecco spiegato il perché dei coloratissimi piumini da sci firmati Moncler e delle giacche da boscaiolo in montone Schott o dei famosi scarponcini Timberland. Con i paninari nasce anche il culto del logo in bella vista: Best Company, Naj-Oleari, Henri Lloyd…
Il prototipo dei giovani “firmati” esplode nella Milano da bere, ma arriva presto anche a Roma e in altre città italiane così come nel Canton Ticino. Nel 1986 la canzone Paninaro del gruppo inglese Pet Shop Boys cita Armani, ma sono molti altri i riferimenti griffati: cinture El Charro, bomber Avirex e zaini Invicta.
Oggi, Nike e Adidas non sono mai state tanto popolari e ricercate, tanto da essere allo stesso livello, in termini di desiderabilità, di Gucci & co!
Mentre in passato il logo era una formula per uniformarsi, per indicare la propria appartenenza a una tribù di “favoriti” come i paninari, stavolta diventa un mezzo per esprimersi, un modo per dare voce al proprio gusto. Non c’è infatti un capo di riferimento, ma una quantità di prodotti mai così vasta con cui giocare. In un mix tra revival, citazioni, riedizioni, tributi e ispirazioni. Tutto si mescola nella nuova cultura urbana digitale et voilà…
Gli anni ’80 sono tornati, o forse non se ne sono mai andati! (Sabrina Mellace)
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Photo: Chiara Giannoni
Fashion: Sabrina Mellace
Style Ass. Martina Antinori
Art Direction: Andrea Bettoni
Grooming: Davide Marrrone
Ass. Giorgia Cricelli
Model: Gonzalo Martin @ I Love Models Management
Dsquared2 coat, Best Company sweater, New Era hat.
Golden Goose coat, American Vintage sweater, Emporio Armani jeans, El Charro belt, Ray-Ban sunglasses, New Era hat.
OOF down jacket, Best Company sweater, Emporio Armani jeans, El Charro belt, Happy Socks socks, Dsquared2 shoes.
Moncler down jacket.