Faced self portrait: da Rembrandt al selfie d’oggi

Dagli oltre cento autoritratti di Rembrandt al selfie dei nostri giorni, dalle parrucche di Warhol ai filtri Snapchat: quando metterci la faccia è un’arte o solo un altro modo per indossare una maschera

Farsi un selfie quattrocento anni fa, da Rembrandt ai giorni nostri, quella dell’autoritratto è una vera e propria mania d’artista ormai parecchio datata. Sottogenere dell’arte, fa parte della nostra storia artistica, culturale e sociale già da molto tempo. Prima dei social media, c’erano una volta i grandi palazzi dei signori, le chiese, i musei e le collezioni private da mostrare agli amici come motivo di vanto.
Ogni opera d’arte parla del suo artefice, eppure, l’autoritratto ce ne mostra un qualcosa di più: il volto. Pratica diffusa già dal Medioevo e consolidatasi col Rinascimento, la riproduzione della propria immagine mette in campo diverse questioni. Mai però fidarsi di un’artista: tra riproduzioni dal vero e amabili finzioni, scherzi goliardici e giochi prospettici, parabole emotive e abusi di Photoshop, la storia – e la stessa arte – ci insegna che la vita imita l’Arte molto di più di quanto l’Arte non imiti la vita.
Riflessioni sul proprio ruolo sociale e battaglie politiche, affinità elettive e dissimulazione, istantanee e narcisismo: ecco a voi, tutti i volti (solo alcuni) di chi ci ha messo la faccia per ritornare poi al fatto che i secoli passano, ma noi, forse, restiamo pur sempre gli stessi.

CHAPTER I – TI VEDO

È il 1434 quando il pittore fiammingo Jan van Eyck ritrae, nell’intimità della loro casa, i coniugi Arnolfini. La coppia viene rappresentata nell’atto di giuramento di matrimonio, mano nella mano alla presenza di due testimoni: van Eyck stesso che si autoritrae nello specchio alle loro spalle e il suo assistente. Oltre al gioco di prospettiva – lo specchio mostra chi esegue il quadro – che rivela una certa consapevolezza delle proprie abilità tecniche, la presenza dell’artista si lega a un altro concetto di fondamentale importanza: il riconoscimento del suo valore, del suo ruolo sociale, del suo status e non solo in quanto garante dell’unione, ma anche e soprattutto in quanto autore dell’opera.

Un gioco, quello dell’autoritratto celato e ambientato, in cui noi italiani siamo maestri: in principio è Giotto che nel 1306 si autorappresenta tra i beati del Giudizio universale della Cappella degli Scrovegni a Padova, seguono il Botticelli nell’Adorazione dei Magi (1475, Uffizi) e un Andrea Mantegna “camouflage” che mimetizza il suo ritratto in grisaille tra il fogliame decorativo di un pilastro della Camera degli Sposi nel Castello di San Giorgio a Mantova (1465-1474). Autocelebrando il suo ruolo di pittore, Raffaello si inserisce tra gli intellettuali e filosofi della sua Scuola di Atene (1509-1511) e, dal gruppo, rivolge lo sguardo complice a chi sta osservando.

CHAPTER II – TANTI TIPI DI FILTRO

Che sia un filtro emotivo attraverso l’uso del colore e il tratto delle pennellate, un travestimento e una posa o un effetto di postproduzione poco importa, un autoritratto – persino un autoscatto fotografico – è pur sempre artificio: quello che vedo è quello che qualcuno ha scelto di farmi vedere.
Nel corso della sua vita Vincent van Gogh dipinse molti autoritratti e tra 1886 e 1889 rappresentò se stesso ben 37 volte: per lui l’arte – e più in particolare la scelta della propria immagine come soggetto – era un modo, forse l’unico, di scrutarsi dentro. Dell’Autoritratto, 1889, scrisse al fratello: “Noterai come l’espressione del mio viso sia più calma, sebbene a me pare che lo sguardo sia più instabile di prima”.

Anni dopo Andy Warhol sceglie l’approccio completamente opposto: eliminare le brutture, travestirsi, usare se stesso solo nel modo in cui più si piace. Un’icona, una superstar, un mito americano come lo Zio Sam o Topolino. Eppure, anche nei suoi dipinti il faustiano “Rimani, sei così bello” lascia a chi osserva la sensazione che il filtro da lui scelto sia la copertura superficiale a una grande paura di vivere e insieme al terrore di morire. Certo che Warhol alla fine il modo l’ha trovato, perché mito e arte sono eterni.

CHAPTER III – L’ARTISTE C’EST MOI

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Albrecht Dürer, “Self-portrait in Fur Trimmed Robe”, Alte Pinakothek, Munich.

Perché autoritrarsi? L’affermazione dell’artista e del suo ruolo all’interno della società fa sì che all’autore vengano riconosciute la paternità dell’opera – il diritto d’autore – almeno quanto lo status che ne deriva dall’averla pensata e realizzata. Ecco che, dall’Alto Medioevo, in cui distinguersi per abilità e doti personali era peccato, al Rinascimento, il cambiamento è radicale: scrive Albrecht Dürer sul suo Autoritratto con pelliccia (1500, Alte Pinakothek, Monaco di Baviera) “Io Albrecht Dürer di Norimberga: all’età di ventotto anni, con colori appropriati, ho creato me stesso a mia immagine”. Il termine “creato” si sostituisce a “dipinto” in una rappresentazione di se stesso che fa pensare – secondo le convenzioni del tempo – a Cristo. Lungi dall’essere considerata blasfemia – non “mi vedo come Cristo”, ma “aspiro a imitare Cristo” – è di certo una grande consapevolezza dell’importanza del proprio ruolo di per se stesso artefice e creatore. Ecco allora che, nel corso dei secoli, si passa nell’arco di duecento anni niente più che da genio romantico a superstar con il riconoscimento pieno – a livello economico e a livello di fama – di chi fa l’arte. Un riconoscimento oggi – neanche a dirlo – sempre più sinonimo di successo.

CHAPTER IV – FACING THE WORLD


Gli artisti del XX secolo trasfigurano dalle modalità tradizionali di rappresentazione – e quindi anche di auto rappresentazione – utilizzando nuovi media e forme espressive: ecco la performance, il selfie, i video o l’uso dei social media. Nella sua video performance Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful (1975), Marina Abramović si autorappresenta mentre con la mano destra si spazzola i capelli e con la sinistra se li pettina, continuando a ripetere “Art must be beautiful, artist must be beautiful (L’arte deve essere bella, un’artista deve essere bella)”. L’azione ha fine quando decide di strapparsi intere ciocche dalla testa e il suo volto si contorce per il dolore.
Un’altra azione estrema quella che ha portato l’artista cinese Ai Weiwei a postare selfie sulla sua pagina Instagram dopo essere stato arrestato e ferito dal governo cinese nel 2009. Anche qui l’autore mostra la sua condizione con un gesto che – così immediato – si serve della straordinaria potenza del web per istigare una riflessione sul ruolo dell’artista oggi.
Marina Abramović e Ai Weiwei, con le opere menzionate, sono in mostra fino al 16 ottobre 2016 per Facing the World: Self-portraits Rembrandt to Ai Weiwei​, l’esibizione organizzata dalla Scottish National Portrait Gallery di Edimburgo.

 

Barbara Bolelli